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Sepsi virale e COVID19: cosa sappiamo e cosa dobbiamo ancora scoprire

Studio su The Lancet fa il punto della situazione su quello che sappiamo e ciò che dobbiamo ancora capire, in particolare sul fenomeno della sepsi virale.

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Molti gli studi in corso, molte le domande ancora in attesa di una risposta. In particolare sul fenomeno della sepsi virale indotta dall’infezione di SARS-CoV-2.

È questa la “fotografia” delle conoscenze scientifiche sull’infezione da COVID-19. La novità della malattia, la sua rapida diffusione e l’estrema varietà della sintomatologia sono le caratteristiche che la rendono difficile sia da contenere che da comprendere.

In un articolo apparso di recente su Lancet, Hui Li e colleghi del Center of Respiratory Medicine, National Clinical Research Center for Respiratory Diseases di Pechino, in Cina, fanno il punto della situazione.

Cosa sappiamo

Diffusasi dalla città cinese di Wuhan nel dicembre 2019 a carico dell’agente virale SARS-CoV-2, a marzo 2020 ha raggiunto oltre 200mila casi in tutto il mondo. Nonostante la maggior parte dei pazienti infettati abbia sintomi lievi, il 5% di loro ha invece mostrato grave danno polmonare e disfunzione multiorgano che ne hanno determinato la morte nell’1,4% dei casi.

Oltre ai più caratteristici sintomi respiratori (tosse secca, difficoltà respiratoria ecc.) molti dei pazienti più gravi hanno mostrato segni correlabili a shock settico o sepsi con estremità del corpo fredde, debole battito periferico anche in assenza di evidente ipotensione.

Considerando la negatività per batteri e funghi nel 76% di questi pazienti, l’ipotesi di sepsi virale sembrerebbe essere quella più probabile. A ciò si aggiunge acidosi metabolica per la maggior parte di loro che suggerisce una disfunzione nel microcircolo e, per alcuni, una grave compromissione renale ed epatica oltre che polmonare. Come dimostrano biopsie e/o autopsie, l’interessamento è infatti multiorgano.

Anche nelle prime fasi di malattia il danno alveolare è notevole con formazione di membrane ialine e infiltrazione di cellule mononucleari e macrofagi.  Alcuni pazienti mostrano inoltre atrofia splenica, necrosi dei linfonodi ilari, emorragia focale renale, ingrossamento del fegato con infiltrazione di cellule infiammatorie, edema e degenerazione cerebrale. Particelle virali sono state poi isolate in campioni di feci e urine oltre che di essudato polmonare suggerendone una trasmissione anche oro-fecale.

Non solo danni agli organi. Pazienti COVID-19 hanno registrato anche elevati valori di citochine pro-infiammatorie e chemochine quali TNF-α, IL-1β, IL-6, macrofagi ecc. IL-6 in particolare, potrebbe avere un ruolo importante nello stimolare la risposta immunitaria promuovendo l’attività neutrofila. Una sua mancanza ha infatti mostrato di prolungare la sintomatologia influenzale. Di contro, la conta linfocitaria, CD4 e CD8 in particolare, ha registrato una notevole riduzione (linfopenia) associata a un maggiore rischio di sviluppare infezioni batteriche secondarie e con la gravità stessa di COVID-19.

Tracce virali sono state trovate anche in linfociti T isolati nel torrente circolatorio, milza, linfonodi e tessuto linfoide di vari organi suggerendo come SARS-CoV possa infettare direttamente anche i linfociti T compromettendone la sopravvivenza. La mancanza di recettori ACE2 nei linfociti supporta inoltre la possibilità di un ulteriore meccanismo d’azione virale.

Alterata nel 71.4% dei deceduti è risultata essere anche la coagulazione intravascolare con aumenti di prodotti della degradazione di fibrina e del dimero-D. Sempre nell’ambito dell’apparato cardiocircolatorio, l’aumento dell’espressione di ACE2 in seguito all’infezione potrebbe in parte contribuire all’ipotensione settica. L’utilizzo di ACE inibitori potrebbe quindi essere utile in pazienti COVID ipertesi per regolarne la pressione e, nel contempo, ridurne l’infiammazione polmonare. Il loro utilizzo è tuttavia controverso.

Cosa rimane da approfondire sulla sepsi virale

Infezione multiorgano, ma in che modo? Una possibilità ancora da dimostrare potrebbe essere un’azione diretta sul principale target, ACE2 (enzima di conversione di angiotensina 2), espresso anche al di fuori della sede polmonare e/o sul recettore L-SIGN4, alternativo per ACE2.

In ambito immunitario, fondamentale è identificare la fonte primaria di citochine nella risposta all’infezione nonché i meccanismi virali che ne stanno alla base e la cinetica di reazione. Quando e quali sono le prime citochine ad essere rilasciate? Il danno tissutale è indotto direttamente dal virus, dall’esagerata risposta immunitaria o da entrambi? Una via di ricerca potrebbe essere quella di bloccare selettivamente uno di questi mediatori pro-infiammatori valutandone gli effetti clinici.

La compromissione immunitaria di SARS-CoV-2 sembrerebbe interessare anche la componente linfocitaria provocando linfopenia. Quali i linfociti maggiormente coinvolti e sensibili?

Infine, la coagulopatia. Il meccanismo che ne sta alla base rimane da identificare. Il virus attacca direttamente l’endotelio vascolare comportando alterata coagulazione e favorendo la sepsi?