La rapida diffusione del COVID-19 ha sicuramente segnato le vite di tutti noi: c’è chi ha dovuto riorganizzare la propria attività lavorativa da casa, chi è rimasto lontano dai propri affetti per le restrizioni imposte dai governi nazionali, chi ha sofferto per la perdita dei propri cari. E poi c’è chi ha vissuto sulla propria pelle gli effetti dell’infezione da coronavirus, in primo luogo le circa 898.000 persone decedute.
Vogliamo raccontare l’esperienza di Maura Cosetti, medico specialista in otorinolaringoiatria del Department of Otolaryngology–Head and Neck Surgery dell’ospedale New York Eye and Ear Infirmary of Mount Sinai, della città di New York.
Una metropoli che oggi deve fare i conti con circa 445.000 casi e oltre 32.000 decessi. Numeri sicuramente molti importanti che hanno messo a dura prova le strutture ospedaliere della città e il personale sanitario che vi lavora.
Cosetti affida le sue riflessioni alla rivista JAMA Otolaryngol Head Neck Surgery, spiegando come le strutture ospedaliere abbiano dovuto immediatamente riadattare molti reparti per dedicarli esclusivamente alla ricezione dei pazienti COVID-19, aumentando la capacità di accoglienza, da 3.184 posti letto a un flusso medio di circa 2.000 persone per oltre dieci giorni consecutivi, di cui, molti in terapia intensiva.
Descrive così il suo primo turno: «Durante il mio primo turno di notte, mentre gestivo i ricoveri del reparto COVID-19, mi sembrava di rivivere il mio internato nel reparto di chirurgia di 17 anni fa. Quella era stata l’ultima volta in cui ricordo di aver fatto qualcosa di diverso da quello che compete a un otorinolaringoiatra».
Ore drammatiche segnate da una «ansiosa attesa di una turnazione sconosciuta, il peso delle conoscenze acquisite da poco e il desiderio travolgente di aiutare». Per molti medici la gestione dell’emergenza si è trasformata in una sorta di corso di aggiornamento “sul campo” sulla medicina d’urgenza. Proprio così. La struttura sanitaria del Mount Sinai Hospital ha organizzato webinar “COVID-19 care for the nonintensivist”, in cui ogni settimana (a volte ogni giorno) i medici di terapia intensiva fornivano preziosi consigli e insegnamenti ai colleghi di altre specialità sulla medicina d’emergenza, sulle malattie dell’apparato respiratorio, oltre che all’uso di tutti i dispositivi di protezione individuale (DPI).
Covid-19 e la riscoperta delle origini
Questo racconto ci fa riflettere su come i molti medici in prima linea durante l’emergenza abbiano dovuto adattare le proprie conoscenze e competenze, mettendo da parte le specialità. E in alcuni casi questo ha permesso loro, paradossalmente, di cogliere gli aspetti più profondi della loro disciplina “d’origine”.
Continua Cosetti: «Dopo anni di pratica in neurotologia non mi aspettavo che questa esperienza mi permettesse di apprendere una lezione preziosa sull’udito e sulla comunicazione». Nonostante anni di neurotologia, in qualità di direttore del Centro per gli Impianti Cocleari, ha capito veramente quanto le persone affette da ipoacusia possano sentirsi sole proprio durante il periodo di gestione dei pazienti COVID.
L’obbligo di indossare per tutto il turno di lavoro i DPI ostacolava ogni tentativo di comunicazione, non soltanto con i pazienti coscienti, ma anche con i colleghi di lavoro e con i familiari dei ricoverati. Tutto «scorreva in una nebbia di rumore bianco, […], rendendo anche le conversazioni di base una vera e propria lotta».
Ogni forma di contatto fisico e di rassicurazione che il personale sanitario avrebbe voluto manifestare ai più era coperto dalle mascherine o sormontato dai rumori assordanti dei respiratori artificiali e dai segnali sonori delle apparecchiature di terapia intensiva.
La lontananza dal “familiare osso temporale” le ha permesso di (ri)scoprire quanto sia fondamentale sentire, comunicare, avere la possibilità di partecipare alle conversazioni sociali. «Forse la pandemia di COVID-19 è stata anche un’opportunità per mettere in evidenza l’importanza di assicurare la salvaguardia della funzionalità uditiva e dei processi comunicativi per i pazienti e per noi medici».
Lo stigma che per anni ha accompagnato e, per certi versi, accompagna ancora oggi l’ipoacusia determina una generale sottovalutazione del problema: la ricerca è sempre più concorde nell’affermare la correlazione tra ipoacusia, decadimento cognitivo, isolamento sociale e persino causa di mortalità. L’alta prevalenza dell’ipoacusia e l’utilizzo non diffuso di hearing device fa in modo che l’ipoacusia non trattata rimanga uno dei principali oneri per i servizi sanitari nazionali.
Conclude Cosetti: «In qualità di otorinolaringoiatri, la nostra azione ai problemi legati all’udito e alla comunicazione sono fondamentali per […] far luce su questa disabilità spesso invisibile».
Segui la sezione ATTUALITÀ di ORL.news
Vincenzo Grancagnolo
Consulting Publishing Editor